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L'ICONA DELLA CHIESA

 

 

L'ICONA DELLA CHIESA

† Agatangelos, Metropolita di Fanarion,
Direttore Generale della Diakonia Apostolica della Chiesa di Grecia.

La gioia sofferente.

 

Ancora una volta ci concentriamo nella domenica dell'Ortodossia, con in cuore la gioia "paradossale" della santa e grande quaresima, su questa «gioia sofferente» della quale parlano i nostri Asceti e Padri.

Questo periodo ci è offerto dalla Chiesa perché possiamo guardare con più attenzione a Dio - nella nostra anima e nel nostro corpo - che non cessa di venire verso di noi, quel Dio che si è incarnato, soffre e risorge, per incontrarci nella nostra sofferenza e per introdurci fin da adesso nella Gioia del Suo Regno.

Ci viene offerto perché possiamo divenire «atleti nell'esilio personale e spirituale in cui abbiamo condotto la nostra esistenza», «uomini che si inebriano dello Spirito», secondo l'espressione di S. Macario.

Questo tempo benedetto ci è offerto, inoltre, per una «decimazione» della nostra vita, per un rinnovato cammino interiore. «Entra nel mio cuore, lì c'è Dio, lì gli angeli, lì la vita e il regno», scrive il Beato Filoteo, il Sinaita.

Ciò di cui dobbiamo renderci conto è che la Chiesa apre a noi la porta benedetta della Santa e Grande quaresima, che ha nella Pasqua la meta finale, esattamente perché possiamo superare l'unico e solo peccato, come in maniera caratteristica riporta S. Isacco il Siro: la nostra indifferenza nei confronti del Cristo risorto. «Tempo opportuno», dunque, «che ha creato il Signore».

Oggi, nella memoria liturgica della Chiesa, abbiamo avuto la grazia di conoscere coloro che hanno vissuto del giorno che non conosce tramonto del Regno di Dio e che sono entrati nella vita risorta di Cristo. Abbiamo onorato i nostri fratelli e amici di Dio che hanno vissuto il mistero dell'adozione, l'evento cioè di essere e di operare quali uomini di Dio. Per questo hanno lottato per la fede ortodossa e per la Chiesa, per il popolo di Dio e per l'antico benessere della pietà.

Dunque, con l'occasione della festa dell'Ortodossia, la vostra carità ci consentirà di presentare a voi piccoli umili pensieri, non in veste di maestro o professore, poiché «uno solo è il nostro maestro, Gesù Cristo», ma quale confessione di cuore da fratello a fratelli.

 

Il senso della Chiesa.

In questo giorno, festa dell'icona e quindi festa dell'uomo, immagine di Dio, dobbiamo rendere testimonianza riguardo alla Chiesa quale comunità pasquale, in cammino verso la Pasqua che non ha fine, Chiesa quale comunità eucaristica che prende su di sé, nella sua preghiera, l'intera umanità e la invita a prender parte all'amore trinitario. Dobbiamo rendere testimonianza a favore dell'uomo, della sua chiamata, della scintilla, del respiro che lo sottrae da questo mondo e gli dà la forza di trasfigurarsi. Dobbiamo testimoniare che Dio è la libertà, la gioia e la vita dell'uomo e che l'uomo può conoscere Dio con un'impenetrabilità che viene dalla conoscenza dell'amore, unendo il suo spirito e il suo cuore a Cristo, «cuore della Chiesa», come diceva S. Nicola Cabasilas.

Quando diviene parola per l'Ortodossia, diviene parola per ciò di più prezioso della fede e della speranza: è mai possibile delimitare o circoscrivere ciò che partecipa al mistero di Dio, alla vita divina, alla stessa vita inesauribile di Dio che ricolma la nostra esistenza umana sia nel peccato sia nella nostra caduta? «È quasi impossibile partire da una precisa definizione di chiesa poiché, concretamente, non ne esiste alcuna che potrebbe costituirsi quale autorità dogmaticamente riconosciuta. Non possiamo neppure trovare una definizione nelle Sacre Scritture, né nei Padri, né nelle decisioni o nei canoni dei Concili Ecumenici e neppure nei monumenti più recenti. La Chiesa è piuttosto la realtà che viviamo, non un oggetto da analizzare e studiare» (P. Giorgio Florovskij).

La Chiesa è Corpo di Cristo, unità nello Spirito Santo e comunità dei fedeli nella deificata-glorificata umanità di Cristo. Cristo e Chiesa sono unità inseparabile e senza confusione. È, secondo Giovanni Crisostomo, «stirpe una, di Dio e degli uomini». Cristo è colui che ci rende Chiesa, perché ci conduce al Suo santissimo corpo, ma anche la nostra Chiesa, poiché diviene luogo spirituale della nostra assemblea. Ecco perché non può mai esistere Chiesa senza il vero Cristo, né può ulteriormente esser fondata su un'ideologia, sia pure detta «cristiana». Infatti è indissolubilmente unita alla Persona del Dio Verbo, del Verbo di Dio Incarnato, di Cristo Salvatore. La Chiesa è lo stesso Cristo, tutto il Cristo, non il corpo dei cristiani ma il Corpo di Cristo (1) .

Raffigura ed esprime questa realtà cristocentrica della comunità ecclesiale, ma rende altresì concreta una prassi liturgica che ha luogo alla fine della Divina Liturgia. Si tratta di raccogliere i preziosi doni nel santo calice. Il celebrante raccoglie all'interno del santo calice le particole che si trovavano nel dìskos fuori dall'Amnòs (Agnello), il corpo di Cristo, ovvero la particola tagliata in onore della madre di Dio, delle schiere degli angeli e dei santi, delle membra del corpo di Cristo, vivi e defunti che hanno concelebrato la divina liturgia insieme al celebrante. Così la comunione dei fedeli in Cristo è già ricondotta all'interno del santo calice.

Pertanto la più profonda relazione della Chiesa e del mondo viene vissuta concretamente in ogni assemblea liturgica, nella quale si costituisce il corpo di Cristo, così come un'anafora eucaristica dell'intera creazione divina nel suo Creatore, come pure un prolungamento del Santo Altare al mondo intero.

Quale corpo di Cristo e popolo escatologico di Dio, la Chiesa è sostenuta dallo Spirito Santo, attraverso la varietà dei suoi doni, dei suoi ministeri e dei suoi carismi. La Chiesa di Cristo vive nella prassi una continua Pentecoste (2) , come «dove la Chiesa, lì anche lo Spirito Santo, e dove lo Spirito Santo lì anche la Chiesa e ogni grazia», secondo l'espressione di S. Ireneo (3) .

Il vescovo occupa un posto di eccellenza all'interno del corpo della Chiesa, «in quanto typos del Padre» (4) e celebrante principale al banchetto eucaristico, ossia della sinassi che stabilisce e rivela la Chiesa.

Pertanto, come non esiste «frazione del pane» e «benedizione del calice» senza il vescovo, così anche il vescovo senza eucaristia. E come la grazia e la santificazione nella nostra vita hanno origine dalla nostra partecipazione all'eucaristia, così anche l'esistenza del vescovo acquista un ruolo vivificante e rinnovato alla maniera della nostra esistenza. Fin dai tempi apostolici, come sottolinea lo ieromartire Ignazio il Teoforo, la Chiesa si distingue per il suo episcopocentrismo, non per il suo "episcopomonismo", per cui ciascun vescovo è il vincolo di unità di ogni Chiesa locale. Ippolito di Roma, in modo caratteristico, riguardo ai vescovi scrive: «Noi siamo i legittimi successori [degli apostoli], dal momento che prendiamo parte della stessa grazia, del sommo sacerdozio e dell'insegnamento, giacché siamo considerate le sentinelle della Chiesa» (5). Con questo carisma il vescovo celebri il convito eucaristico, presieda quale icona viva di Cristo nella vita mistica della Chiesa; seguono anche i suoi restanti uffici ecclesiali, di governare, guidare e istruire il suo gregge.

 

Il senso soteriologico e pedagogico dell'icona.

Nella Chiesa di Cristo, dunque, si incarna l'unione carismatica delle persone che credono e testimoniano il mistero della verità e della grazia (Gv 1, 17) in questo mondo dove «tutto sta sotto il potere del maligno» (1 Gv 5, 19).

L'icona ortodossa esprime la stessa verità: «Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16). L'icona ortodossa, ossia le icone del nostro Signore Gesù Cristo, della Madre di Dio e dei santi, mirano alla salvezza, alla conoscenza, alla fede vale a dire alla vita, per ciascuno che crede alla Persona e all'opera di Cristo Salvatore. «Perché il mondo conosca» (Gv 17, 23), «perché il mondo creda» (Gv 17, 21).

L'icona ortodossa, in quanto linguaggio teologico, «parla» e ci istruisce, ci educa, ci tranquillizza, ci sostiene e ci chiama all'incontro.

 

L'icona del Signore.

L'icona del Signore Gesù, in primo luogo, costituisce la manifestazione e la visibile garanzia della verità della nostra fede perché «Dio si è manifestato nella carne». Infatti l'incomprensibile e incontenibile natura divina «è spogliata» e incontra la natura umana finita: poiché l'increato si incontra con il creato ed esiste nella misura della creazione. Per questo anche il Concilio Quinisesto (691 d.C.) con il suo LXXXII canone, riguardo al sottolineare la verità capitale del significato della divina incarnazione, proibisce in seguito di rappresentare Gesù in forma di agnello e sancisce che «sia innalzata l'icona di Cristo nostro Dio secondo la figura umana».

In questo modo i fedeli si troverebbero nella condizione di comprendere «la profondità dell'umiliazione del Verbo di Dio» e si verrà condotti per mano «al ricordo della sua incarnazione, della sua passione e della sua morte salvifica e della redenzione che da lì è venuta per il mondo».

In accordo, pertanto, con i decreti conciliari, l'icona di Cristo diviene luogo della manifestazione di questo incontro redentivo di Dio con l'uomo. Manifesta infatti la fede della Chiesa poiché Cristo è Dio fatto uomo, la Verità incarnata nella sua pienezza, che la comunità cristiana deve mostrare a tutti perché sia così sottolineato il rifiuto di ogni astrazione e di ogni concezione metafisica della religione. D'ora in poi Verità non è un'idea o una forma astratta, ma Persona specifica che può esser rappresentata. La Chiesa ormai può non solo parlare riguardo alla verità, ma può anche mostrarla: è l'icona di Cristo. Questa rappresenta la Persona o Ipostasi del Verbo Incarnato, nella quale si incontrano e si uniscono «senza confusione» e «senza divisione» natura divina e natura umana.

L'icona di Cristo non manifesta solo l'incontro di Dio con l'uomo, ma costituisce allo stesso tempo anche un invito all'incontro dell'uomo con Dio. Le icone dei santi, gli amici di Dio, costituiscono le manifestazioni di questo secondo incontro.

 

Le icone della Madre di Dio e dei santi.

Le icone della Madre di Dio, in primo luogo, rappresentano, nella «semantica» dell'iconografia ortodossa, la Vergine Maria come «cielo» e «terra buona», «monte intatto» e «grembo fecondo», come Madre di Dio. Quale fanciulla, vale a dire, che «nella sua esistenza fece coincidere la vita del creato con la vita dell'increato, unì nella sua vita il creato con il suo creatore». Poiché «è quella creazione - solo quella all'interno di tutta l'attività di Dio, l'ilica e la pneumatica- che è giunta alla pienezza dello scopo per il quale esiste la creazione stessa: all'unione più piena possibile con Dio, alla realizzazione più piena delle possibilità della vita».

Per questo gli iconomachi, contestando l'icona della Madre di Dio, contestano infine la possibilità che l'uomo ha, unito a Cristo, di divenire Dio secondo grazia, perché la «Madre di Dio» si comprende e si dice tale «non solo a motivo della natura del Verbo, ma anche a motivo della deificazione dell'uomo».

Le icone dei santi manifestano questa divinizzazione dell'uomo, per grazia divina, in base al secondo ragionamento. I santi dell'iconografia ortodossa, infatti, sono persone che hanno incontrato ontologicamente Cristo e si sono uniti esistenzialmente a Lui. Attraverso questa unione hanno alterato «il beato mutamento», hanno restaurato l'immagine caduta di Dio dentro di loro, ripristinando l'originaria bellezza e furono così mutati in templi dello Spirito Santo e dimore di Dio, a gloria di Dio.

Conformemente alla fede della Chiesa, l'uomo è la gloria di Dio. Nella persona dei membri della Chiesa che vengono trasfigurati e divinizzati è glorificato Dio. Le icone dei santi esprimono precisamente questa divina dossologia, come pure le loro sacre reliquie. Rivelano dinanzi ai nostri occhi la via che hanno percorso per incontrare Cristo e per divenire la gloria di Dio. Anche la Chiesa Ortodossa, dipingendo le icone dei suoi santi, ci ricorda «in modo firmato la carta d'identità dei suoi membri glorificati: mostra cioè la peculiarità delle persone raffigurate mediante la loro nuova ipostasi in Cristo che attesta anche la partecipazione, senza confusione, alla divina gloria e alla divina grazia di Cristo di coloro che sono rappresentati nell'icona stessa».

Le icone dei santi, in particolare, «rivelano gli effetti ontologico- etici del dogma cristologico di quei volti che sono rappresentati nell'icona stessa, nell'esistenza in Cristo», ossia la divinizzazione. Costituiscono, in altre parole, l'espressione icastica e la raffigurazione (con-formazione) della celebre frase del Grande Atanasio: «Egli infatti (Dio) si è fatto uomo, affinché l'uomo divenga Dio».

Potremmo dire, pertanto, che l'icona ortodossa rende percepibile in modo icastico la descrizione di San Simeone il Nuovo Teologo, riferita alla trasfigurazione dei corpi dei Santi per mezzo del fuoco divino, ossia della grazia increata di Dio: «così certamente anche i corpi dei santi dalla grazia che spinge nella loro anima, ovvero che hanno ricevuto tramite il fuoco divino, sono santificati ed arsi, splendenti: divengono tali e sono ristabiliti molto più venerabili e superiori rispetto agli altri corpi».

Oggi, fratelli miei carissimi, abbiamo portato in processione in questo sacro luogo la reliquia sempre custodita di S. Teodora. Ecco la vittoria della fede dinanzi a voi: la divina grazia inabita la sacra reliquia della Santa. Ecco davanti ai nostri occhi il grande miracolo celebrato della vittoria sugli avvenimenti mondani, tramite l'obbedienza della fede.

Nella cornice di questa dottrina ortodossa, riassumeremo dicendo che l'icona non rappresenta il mondo materiale della corruzione e della morte. Al contrario, rivela ai nostri occhi il rapporto spazio-tempo del Regno di Dio trasfigurato dalla divina grazia. Il mondo dell'icona è «il regno di Dio ineunte in potenza», è il mondo che comunica l'eternità. L'icona ortodossa presenta come ciò che è corrotto dalla caduta «secondo l'immagine», può esser ristabilito nella condizione della «primitiva bellezza», ossia nell' originaria bellezza della persona umana. L'icona mostra «la potenza che ha la realtà povera e materiale del mondo - la carne della terra e dell'uomo- di esser unito alla vita divina, la potenza che ha l'incorruttibilità di rivestire ciò che è corruttibile».

L'iconografo «articola» questa verità «non schematicamente e allegoricamente, ma raffigurando in disegno e nel colore ciò che è reso incorrutibile, la gloria dell'umanità e della carne del mondo».

 

La porta della grande quaresima.

Questa verità illumina altresì il periodo della grande quaresima, che ha la Pasqua quale traguardo finale, «la solennità delle solennità e la festa delle feste».

Questo periodo si configura anzitutto come scuola di conversione, nel quale ciascun cristiano ogni anno deve introdursi, perché riesca ad immergersi nella propria fede, per rivalutarla e così cambiare la propria vita, per irradiare, nella propria esistenza, la luce e la gloria di Dio.

È, soprattutto, periodo di gioia, perché tempo di ritorno. È un tempo che offre l'opportunità di rimuovere dalla nostra interiorità tutto ciò che sa di corruzione e di morte, perché possiamo vivere; vivere in primo luogo una vita per la quale siamo creati: piena, consapevole e spiritualmente intensa.

Purtroppo, oggi più che mai, viviamo in un mondo che non si configura come «cielo terrestre, che non ama i litigi, contro cui non si fa guerra, tranquillo, privo di invidia, pacifico, innocuo e innocente». Questo tuttavia ci aiuta a comprendere consapevolmente e profondamente la rilevanza spirituale di questo periodo dell'anno liturgico.

 

Principio e fine della vita in Cristo.

Fin dalla prima domenica del Triòdion, dopo la lettura della pericope evangelica del mattutino, la Chiesa prega: « Datore di vita, aprimi le porte della conversione», perché il Signore Datore di vita apra le porte della conversione a tutti i membri del Suo corpo. La conversione è ritenuta il principio e la fine della vita in Cristo nonché l'atmosfera all'interno della quale è vissuta un'autentica vita cristiana.

«Conversione significa rinnovamento del battesimo. Conversione significa conformità a Dio per una vita nuova. Conversione significa essere un acquisitore di umiltà. Conversione significa costante eliminazione di ogni conforto di natura corporale, pensiero di autodiscernimento, spensieratezza nei confronti del superfluo e preoccupazione per la propria salvezza. Conversione significa figlia della speranza e rinuncia allo sconforto, purificazione della coscienza, sopportazione volontaria di tutte le tristi circostanze».

Conversione è altresì unica situazione e costante restaurazione nella vita di ciascun credente. È particolarmente importante come in ogni nostra assemblea di culto eucaristico chiediamo al Signore di condurre il restante tempo della nostra vita «nella pace e nella conversione».

Il primo comandamento del Signore è quello della conversione. È inoltre partecipazione al Regno di Dio, che è il Suo Corpo teantropico: la chiesa è la conversione. Tuttavia il merito personale, virtù oggettiva riconosciuta, non garantisce la permanenza nella conversione, ma è la conversione stessa, nuovo atteggiamento di fiducia e di affidamento di tutta la vita del credente - e quindi compreso il mal riuscito esercizio della sua libertà- a Cristo all'interno della Chiesa.

Nelle Sacre Scritture e nella tradizione patristica la conversione è citata come più ferma garanzia in vista del restauro dalla caduta e della purificazione dalle passioni, come pure sicuro traguardo nel cammino dell'uomo verso la divinizzazione.

Il cammino della vita terrena dell'uomo è periodo di conversione: «La pluriennale vita di Adamo, dice S. Gregorio Palamas, dopo la caduta, ma anche il tempo "che ciascuno vive", costituisce uno stadio di conversione messo a disposizione da Dio che ci ha dato questa vita transitoria "offrendo un luogo di conversione"».

Infatti, se non esistesse possibilità di conversione immediatamente dopo la sua caduta, l'uomo esaurirebbe anche la vita presente, una vita da cui non ricaverebbe particolare profitto.

La conversione è principio e criterio di discernimento della vita del credente. Per questo è anche donata quale promessa prima del battesimo, vive il momento del battesimo ed esiste come necessità, ma anche come benedizione e gioia di Dio per la vita del credente dopo il battesimo.

La Chiesa non guarda alla conversione come un formale e meccanico cambiamento, in quanto la concepisce come rinnovamento ontologico della natura umana.

Precisamente per questa ragione non è possibile oggettivare la realtà della conversione nelle forme di una impersonale richiesta o di metodo, ma permane sempre quale eventualità della scoperta personale.

Tuttavia, poiché la conversione è principio e fine della condotta di vita in Cristo e poiché è lo scopo di questa stessa vita, è logico che ogni cosa sia considerata a partire dalla conversone stessa e che tutto riceva, in relazione a quella, il premio o la pena. Inoltre anche «la fede è d'aiuto, qualora ci si comporti secondo coscienza e ci si purifichi attraverso la confessione e la conversione».

 

L'occasione del perdono.

Uno stadio fondamentale che precede la conversione è la coscienza e la piena avvertenza dei peccati, «che è grande occasione per il perdono». Per giungere alla conversione, l'uomo arriva prima alla coscienza «dei propri peccati» e si pente davanti a Dio, nel quale si rifugia con cuore contrito. E quando con coscienza e piena avvertenza della propria caducità egli attirerà su di se la misericordia di Dio, ottiene «la perfetta remissione» attraverso l'autoaccusa e il sacramento della riconciliazione.

La conversione, come nuova situazione nella vita dell'uomo, è accompagnata da determinati effetti che il linguaggio biblico e patristico denominano "frutti della conversione". La confessione è presentata come primo frutto della conversione, in quanto attraverso questa è offerta la cura e la purificazione dell'anima del credente ed è inaugurata la sua nuova vita.

La confessione però non è il solo frutto della conversione. S. Giovanni il Precursore, invitando gli uomini alla conversione con la sua predicazione, li esortò alla misericordia, alla giustizia, all'umiltà, alla carità e alla verità, alle qualità della rinnovata potenza della conversione.

L'uomo che vive autenticamente la conversione non ritorna sui suoi primi peccati, dice S. Gregorio Palamas, né si lega a persone o cose "della corruzione", ma disprezza le cose del momento, anela a quelle future, lotta contro le passioni, persegue le virtù, veglia in preghiera, si tiene lontano dagli ingiusti profitti, è indulgente verso quanti cadono in errore e pronto ancora ad aiutare con parole, opere e sacrifici coloro che ne hanno bisogno. E ogniqualvolta egli esorta i cristiani a compiere opere di misericordia, ne sottolinea soprattutto l'umile intenzione, la devozione e la compunzione spirituale.

Il cammino di restauro dalla caduta attraverso la conversione, di allontanamento dalla schiavitù delle passioni e di ascesi attraverso la dedizione ai divini comandi, è il cammino dei giusti e delle esistenze divinizzate.

Se è vero che non a tutti è possibile raggiungere i giusti, i santi nelle opere grandi e miracolose che caratterizzarono la loro vita, è tuttavia possibile e doveroso assimilarsi a loro e seguirli nel cammino della loro vita verso la conversione che trova posto e fine nella nostra vita, tanto quanto nella loro.

E questo perché quotidianamente «noi cadiamo in errore molte volte» e il ritornare in sé e la vita della «continua conversione» rimane quindi l'unica speranza di salvezza per tutti noi.

 

Mutua pericoresi e perdono reciproco.

Durante questo periodo teniamo presente nella memoria del nostro cuore che la nostra conversione non sarà sincera se non perdoniamo i nostri fratelli.

L'apostolo Paolo propone una soluzione trascendentale: «abbiamo riguardo gli uni per gli altri per spronarci alla carità». Solo all'interno della dinamica della carità possiamo comprendere e perdonare gli altri, nonché esser perdonati e compresi dagli altri. Solo così diveniamo capaci di sopportare le ingiustizie e le avversità, come pure l'amarezza che gli fa seguito per non isolarci in modo disperato. Del resto, fratelli miei, il «perdonare», in greco « óõí - ÷ùñ ῶ », significa che sto con l'altro, che posso accogliere l'altro, che gli sono vicino, che lo amo per quello che è e non per quello che vorrei che fosse, che posso vivere con te. E se occorre, sono disposto a prenderlo sulle mie spalle, come fece il Signore con la Sua croce.

Non è pertanto casuale il fatto che, dietro l'azione pedagogica della Chiesa, gli atti di carità superino le estreme pratiche ascetiche, conquistandone la centralità.

«Un eremita», racconta il Gerontikòn, «dopo 40 anni trascorsi nell'eremo, diceva a un Abbà di un grande monastero: "il sole non mi ha mai visto mangiare". A me, rispose l'abbà "non mi ha mai visto furioso contro un mio fratello"».

Proviamo dunque a sostenere la durata della nostra lotta spirituale, a mantenere «la mansuetudine e la tranquillità, un comportamento mite, pacifico, sincero e semplice, imperturbabile e disinteressato, misericordioso e pietoso, generoso e compassionevole, amorevole verso il fratello e prossimo, che ami la povertà e la bontà, amante della verità e unificatore, pacato e contenuto nel tono», affinché Dio possa benedirci.

 

La vita ecclesiastica .

Questa condotta di vita, questa testimonianza costituisce e stabilisce in modo preciso l'opera nostra e della Chiesa e si colloca altresì alla fine di ogni azione e di ogni attività della Chiesa stessa. Questo è il modo attraverso cui coloro che credono in Dio e Lo amano conservano il mondo dal decadimento e ne scrivono la storia in profondità.

Poiché solo all'interno della vita di Dio e non all'interno di ideologie e teorie che costantemente annullano la libertà e la personalità, l'uomo ha la possibilità di vivere come tale e di rispondere alla sua chiamata divina, ossia esistere in essenza ed essere persona, immagine di Dio.

Se ci separiamo dall'esperienza di questa realtà, allora la Chiesa diviene un semplice «typos», intorno al quale, sostanzialmente, non può esser detto nulla.

Molte volte questa verità, a causa dell'umanità contaminata dalla volontà e dal peccato del mondo, appare impotente e soggiogata. Il risultato è di credere che gli errori e gli sbagli degli uomini siano errori e sbagli della Chiesa. Se ammettessimo qualcosa di simile, alieneremmo alla fine lo stesso uomo, facendogli dimenticare il suo riscatto divino e il suo cammino, l'evento salvifico di Dio che ci è stato offerto, nella Persona del Suo Stesso Figlio, «affinché gli uomini abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».

Molti predicano sulla crisi della Chiesa: questo è sbagliato. La crisi infatti è degli uomini: è la crisi che risiede nella coscienza di ciascuno. È crisi della nostra autenticità. La crisi risiede nell'impossibilità da parte degli uomini di conoscere la verità e la pienezza della vita della Chiesa.

Ed è precisamente questo il segno decisivo ed estremo: la perdita dell'uomo dalla sua via. Il peccato del mondo non ha voluto mostrare Cristo quale centro di tutti gli eventi. Le conseguenze che entrano in azione nella vita da un siffatto consenso e che sollevano grandi pretese, alienano alla fine lo stesso uomo facendogli dimenticare il suo riscatto divino e il suo percorso.

Così il significato finale della nostra attuale crisi è che il mondo all'interno del quale deve vivere oggi la Chiesa ortodossa non è il suo, né tantomeno un mondo neutrale, ma un mondo che la provoca nella sua essenza e nella sua esistenza, un mondo che tenta consciamente o inconsciamente di alterarla e deformarla.

 

Conclusione.

Teniamo dunque ben in mente ciò che dice un saggio avvertimento durante le vigilie della grande quaresima: «il diavolo non mangia, non beve, e anche il più grande asceta non per questa ragione è tipicamente meno diavolo…».

Sottoponiamo sempre ciò che è secondario - digiuno, veglia, anacoresi- allo scopo principale: la conversione e la purezza del cuore insieme alla carità, secondo le parole e le azioni dei Padri della nostra Chiesa.

Dio voglia che viviamo sempre la gioia dell'attesa della venuta del Signore, perché possiamo resistere, sopportare e sperare. Sperimentiamo nella nostra vita l'evento di essere immagini di Dio e che l'immagine della gloria di Dio è l'uomo vivente. Viviamo la ricchezza della nostra Chiesa e la copiosità dell'Ortodossia. Siamo qui, secondo l'esempio dei nostri santi, quali membra della Chiesa, pacifici difensori della fede ortodossa, predicatori apostolici, noi uomini autentici che offriremo il nostro quotidiano con saggezza e mansuetudine per la speranza che portiamo nel cuore.

 

MARTIRIO E TESTIMONIANZA

La Chiesa di Cristo si vanta giustamente oggi poiché festeggia, con gioia spirituale, la memoria di tutti i santi.

La festa di tutti i santi che, nella Chiesa antica era la festa di tutti i santi martiri, ci aiuta a comprendere che la Chiesa non è un'istituzione umana, né un luogo in cui sono appagate le nostre necessità psicologiche ed emotive, ma il Corpo teantropico di Cristo, ricolmo delle azioni dello Spirito Tuttosanto. La Chiesa è la comunità eucaristica, Cristo Stesso, Colui che è origine e pienezza del Corpo della Chiesa.

La vita dei Santi ci insegna che è Dio la libertà dell'uomo. La persona non è di questo mondo. L'uomo è plasmato secondo la divina bellezza e per questa ragione può trasformare il mondo. La presenza della Chiesa e la sua testimonianza liberano il mondo dal destino, per offrirgli una via d'uscita verso le potenze e i frutti dello Spirito.

Questo è il grande messaggio degli amici di Dio che furono martirizzati nei primi secoli del cristianesimo, in un'epoca in cui la comunità si trovava, anche allora, in una totale crisi. Vi era una crisi di valori, accompagnata da una generale delusione e da una proliferazione di eresie. I primi santi, tuttavia, hanno riconosciuto che «se qualcosa nel mondo deve esser salvato, non è l'uomo in particolare, ma la carità di Dio, perché Egli per Primo ci ha amati e la Sua potenza mantiene e sostiene l'uomo».

Lo scopo dei santi non potrebbe essere diverso da quello del Signore, come pure non può divergere dal fine dei Suoi insegnamenti. Secondo Gregorio il Teologo, Cristo «fu preparato per glorificare e morì per salvare». Questa è l'azione salvifica della passione di Cristo. Così, il calice amaro del Signore è divenuto più dolce per noi.

Questo è il criterio di autenticità della Chiesa, ossia di stabilire un legame tra il Cristo crocifisso e risorto. E ciò che vale per la Chiesa, vale anche per tutti noi. Criterio di autenticità della nostra appartenenza alla Chiesa è la vita della croce. S. Isacco il Siro dice «la via di Dio è la croce quotidiana».

La questione, quindi, non è l'assenza di avversità e di martirio, ma di sorreggere la Croce del martirio con fede e amore in Cristo, ben sapendo che, secondo l'esempio del Signore, tanto integrale è la nostra umiliazione, tanto più grande sarà la nostra gloria e la nostra beatitudine.

La memoria dei santi non è una semplice visione, una gioia limitata, un dovere. È il cielo per intero, tutta la storia, tutta la fede, tutto il sinassario. È una pacifica testimonianza della rivoluzione delle coscienze. Quando i santi vengono condotti al martirio, vivono la gioia della Pasqua e benedicono i loro carnefici. Si augurano che vengano salvati. Per questo festeggiamo, per questo ci sentiamo particolarmente benedetti, per questo immaginiamo alla presenza dei santi accanto a noi quale inesauribile patrimonio che ci invita a diffondere quotidianamente le memorie della Chiesa quali sono i martiri e le predicazioni apostoliche della vita del Vangelo.

Viviamo la gioia dell'attesa della misericordia del Signore insieme con lo Spirito di Dio, attraverso una vita santa, viviamo la comprensione vicendevole, la pace, la preoccupazione e l'amore per il mondo e per il prossimo; resistiamo, sopportiamo, speriamo e mostriamo nella nostra vita i princìpi della Chiesa.

 

UNA PROPOSTA ORTODOSSA PER SCONFIGGERE IL FONDAMENTALISMO

In situazioni di scontro reciproco a livello politico si persegue la strumentalizzazione della religione per fondare ideologie personali, etniche, razziali, strategiche e di altri interessi per il proprio tornarconto. Purtroppo le religioni non solo cedono alle sleali macchinazioni della politica internazionale, ma vi dipendono e, molte volte, mistificano la prospettiva politica di un luogo sotto le spoglie di una particolare interpretazione delle verità delle religioni.

Questa relazione tra fondamentalismo e politica diviene più evidente nella situazione di quegli stati che da un lato hanno vissuto la dolorosa esperienza del colonialismo europeo e dell'invasione economica dell'occidente e dall'altro hanno affrontato gli scottanti problemi (economici, sociali e di identità) sorti all'epoca del postcolonialismo e contemporanea e che hanno impedito la possibilità di una crescita e di uno sviluppo di una ideologia politica capace di esprimere e abbracciare tutte le necessità dell'uomo e contribuire così alla liberazione dalla polarizzazione tra uomo e storia.

È giudicato tragico il fatto che i fondamentalisti, nel contesto di una coesistenza con una realtà fondamentalista e religiosa, malgrado la loro accesa posizione di insistenza e di concentrazione sui vecchi modelli, non provino alcuna difficoltà nell'adottare pratiche e metodi (politici, economici, organizzativi) presi in prestito dal fronte "nemico", al fine di coltivare fanatismo, intolleranza, opposizione, possesso e annullamento della persona umana nonché oppressione religiosa.

Pertanto una delle più importanti sfide a livello universale è costituita dal superamento del fondamentalismo. Tale tentativo è necessario che sia affrontato in modo multilaterale. Le conseguenze negative di prassi e fallimenti (consci e inconsci) del passato, devono costituire il punto di partenza e motivo per una sincera disposizione autocritica, per una reciproca comprensione e conoscenza.

Dobbiamo prendere in seria considerazione il fatto che i fondamentalisti in sostanza non solo si oppongono al tentativo di superare tale fenomeno, non solo utilizzano strategie istituzionali di autorità e competenza dello stato o sono da essi utilizzati, dividono religioni e Chiese, contrappongono, assolutizzano e aggrediscono, confondono e identificano la fede e le sue espressioni, non solo rifiutano la tradizione, ma soprattutto asserviscono la libertà di coscienza e umiliano integralmente la dignità umana, dal momento che il fondamentalismo è privo di un'ontologia e si distingue unicamente per deontologia e moralismo.

La crisi della logica umana può aiutare, anzitutto, a trascurare gli elementi negativi che rendono difficile la comunicazione tra gli uomini e diverse posizioni. Ciononostante la sola strada da percorrere affinché tutto ciò possa realizzarsi è il dialogo, l'approccio reciproco, la comprensione tra le religioni e il mondo, così da porre in essere prospettive di collaborazione, di coesistenza pacifica e di comune testimonianza a favore di impegnative istanze e ricerche a livello universale (libertà, giustizia, solidarietà ...). Presupposti necessari di questo dialogo sono: la conoscenza reciproca della parità di valore, del diritto alla diversità e di come quest'ultima abbia origine a partire dal patrimonio religioso, politico ed etnico, il rispetto reciproco, la partecipazione sincera e la disposizione alla coesistenza pacifica.

Le relazioni delle Chiese cristiane per un'autentica collaborazione, una conoscenza e un rispetto reciproco, devono essere fortemente sostenute nel tentativo di abbattere il fondamentalismo. Ciò esige un continuo impegno e una maturazione del dialogo teologico. Le Chiese sono chiamate a collaborare con rispetto e sincerità per superare condizioni politiche o pseudo politiche, atteggiamenti proselitistici e razzismo etnico. L'ecumenicità non annulla , ma mantiene l'identità dei popoli: la conoscenza reciproca non porta a un sincretismo religioso, ma al contrario verso il rispetto e verso un pluralismo, nei confronti del quale deve esistere un criterio di giudizio e di dignità.

La politica degli Stati gioca un ruolo importante nel coltivare il dialogo e nel concentrare gli sforzi per sconfiggere il fondamentalismo, particolarmente quando concede e riconosce a ogni comunità religiosa il diritto di esistere in conformità alle proprie giuste tradizioni, rispettando il prossimo e le leggi dello Stato. Per questa ragione la politica deve efficacemente tutelare il diritto individuale della libertà di religione nel quadro dell'antica tolleranza religiosa, costituendo una visione universale.

Sappiamo che le relazioni tra politica e religione sono imprescindibili nella storia dei popoli, ma le Chiese e le altre religioni (le componenti interessate) devono avere chiara coscienza della loro relazione con lo Stato e con la politica, per ridefinirla o rivalutarla. Le religioni non devono sottomettersi a scopi ed interessi della politica né interferire a livello istituzionale e politico con ingerenze finalizzate a un'imposizione sleale e oppressiva della loro fede.

Per ciò che concerne il dialogo tra Ortodossia e Islam riteniamo che, nonostante le molteplici divergenze, la Chiesa Ortodossa desideri una pacifica coesistenza con il mondo islamico e che questa sua disposizione abbia origine a partire dalle comuni esperienze storiche. Tale dialogo consiste nell'affrontare tutti i temi che ineriscono ai comuni diritti umani. Manifestare posizioni di isolazionismo da parte del mondo europeo e delle Chiese nei confronti dell'Islam, produrrà terreno fertile per la crescita del fondamentalismo, al punto da scoraggiare non solo ogni disposizione al dialogo di ciascuna delle parti interessate, ma di intensificare contrapposizioni e coltivare ostilità.

L'ecumenicità per l'Ortodossia non rappresenta un termine riferito ai confini di un territorio, ma una condizione di liberazione dai limiti umani nella nuova creazione del Regno di Dio: il Dio che si incarna, patisce e risorge per la salvezza dell'uomo, ci invita a esser scelti, non a ritrattare o a respingere, ma ad abbattere il fenomeno del fondamentalismo. L'ecumenicità dell'Ortodossia, purtroppo, intimorisce le coscienze vulnerabili dei fondamentalisti che non sono capaci di interpretare i segni dei tempi (i messaggi che provengono dagli eventi), nonostante tutti i dati sconvolgenti, così come non sono capaci di osservare che il solo antidoto alla crisi dei nostri tempi non è fornito dal fondamentalismo né dalle sue patologiche espressioni, ma dall'ecumenismo e dal dialogo. L'anafora eucaristica della Chiesa ci offre Cristo stesso, Colui che si è incarnato e che ha assunto nella sua Persona tutto il mondo: la partecipazione alla Sua Croce e alla Sua Risurrezione costituisce la condizione fondamentale per sconfiggere il fondamentalismo. Infine, se il nostro legame alla tradizione non smette di presentarsi quale eccessivo e sterile riferimento al passato che legittima una certa dimensione di rivalsa autoreferenziale e se la tradizione stessa non diviene piuttosto latrice del carisma profetico, illuminando il presente di luce escatologica del futuro, allora tale tradizione si limiterà a essere soltanto una semplice imitazione: «copierà» con uno spirito di inganno gli elementi del passato né il nostro cuore sarà in grado di realizzare l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo (come precisamente accade al fondamentalismo estetico). Questa è ormai anche la grande colpa dell'Europa cristiana.

 

CHIESA, COMUNIONE E MONDO

La Chiesa, secondo la tradizione apostolica, è lo storico corpo di Cristo, nel quale il genere umano e tutta la creazione si ricapitola, si rinnova e si completa tanto attraverso la riconciliazione e la ricapitolazione di Dio della comunione incrinata, quanto per il compimento escatologico dell'inaugurazione in Cristo del regno di Dio. Il secondo Adamo, Gesù Cristo, è stato il principio della «stirpe nuova» dei cristiani, nel corpo del Quale tutti i battezzati si concentrano come membra, perché «quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte… e siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte» (Rm 6, 3-5).

La nuova relazione degli uomini con Dio è vissuta quale esperienza comune nell'unità organica e nella liturgia armonica di un solo corpo, «e infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo… voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1 Cor 12, 12 ss.), nel quale si rinnova il «secolo antico», nel quale si compie ed è vissuta dai fedeli in Cristo la nuova realtà del mondo e in cui il «già» si unisce al «secolo futuro» nella storia della salvezza (Rm 5, 12-21).

Questa esperienza ecclesiale costituisce la più profonda espressione storica dell'opera dello Spirito Santo - che è garanzia della presenza del Signore nella Chiesa - all'interno della vita stessa della Chiesa, vivifica la nuova umanità in Cristo, rende accessibile la verità della rivelazione in Cristo nella Chiesa, la protegge dalle utopie del tempo o dalle parziali ricerche escatologiche, assicura l'autenticità delle verità di fede, secondo la propria coscienza, attraverso precisi modelli storici, trasforma la verità storica in Cristo in verità storica adeguata ai tempi della Chiesa, mantiene il genuino equilibrio all'interno della Chiesa tra la continuità diacronica e il rinnovamento del messaggio cristiano, tutela l'autentico succedersi del continuo essere della fede nel continuo divenire della tradizione e, più in generale, conduce la Chiesa stessa al sicuro adempimento della sua missione nel mondo sino alla fine dei secoli.

La realizzazione della missione della Chiesa diviene attuabile, secondo il comando del suo Fondatore, solo attraverso il vissuto ecclesiale del corpo della Chiesa e attraverso l'annuncio della fede cristiana «a tutte le genti»; fa altresì riferimento all'assunzione, al rinnovamento e al rapporto del mondo con il suo divino Fondatore, Gesù Cristo. Così l'assunzione del mondo nel corpo della Chiesa è compresa sempre all'interno del quadro dell'assunzione dell'intero genere umano e di tutta la creazione divina nell'umanità di Cristo, «perché Cristo sia tutto e in tutti» (Col 3, 11).

Gesù Cristo, in pratica, nonostante abbia assunto, con la Sua incarnazione dalla stirpe di David, la comune natura umana, non era un semplice uomo nella Sua umanità, ma l'uomo per eccellenza che ha assunto, nella sua umanità, l'intero genere umano e l'intera creazione divina.

Questa prospettiva cristologica della relazione tra Chiesa e mondo, che ha come suo cardine la «ricapitolazione» di tutto nell'umanità di Cristo, rivela sapientemente la liturgia acquisita dalla Chiesa e non certamente quella rigettata in tutta la storia della salvezza. In concreto la Chiesa, in quanto prolungamento del corpo di Cristo nello spazio e nel tempo, assume di continuo l'uomo e il mondo non certo come modelli ideologici e teorici, quanto piuttosto come realtà storiche incarnate, ossia l'uomo che esiste e che si evolve nel contesto della varietà dei suoi cammini spirituali oppure delle sue tradizioni politiche. Ciò che Cristo opera nel mondo, lo opera altresì all'interno della Sua Chiesa, allo stesso modo in cui l'azione della medesima Chiesa nel mondo è resa possibile solo attraverso Cristo.

Da questo punto di vista tutta la liturgia della Chiesa si configura secondo la sua natura, in quanto corpo di Cristo, come pure secondo la sua missione, in quanto assunzione nel corpo di Cristo di tutto il genere umano, il "luogo" per eccellenza in cui vengono abbattuti tutti gli elementi etnici, sociali, spirituali e ogni altro elemento divisivo, tanto a motivo della restaurazione della retta comunione, in Cristo, dell'uomo con Dio, con il suo prossimo e con il mondo, quanto a motivo dell'elezione del genere umano, della sua unità ontologica. Questa autocoscienza della Chiesa è sempre esistita, come si evince sia dalla teologia dei grandi Padri della Chiesa sia da come è soprattutto vissuta nell'esperienza e nella tradizione liturgica della Chiesa con particolare coerenza e continuità.

Questa coscienza della Chiesa dei primi secoli è espressa altresì dall'anonimo autore della lettera a Diogneto: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale… Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera… Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo».

Tutta la liturgia della Chiesa, attraverso la formazione del suo storico corpo, introduce una nuova proposta per la riorganizzazione radicale della società, in quanto offre un nuovo modello di uomo, il prototipo dell'«uomo cristiano», quale cellula fondamentale per il rinnovamento delle sue strutture, nonché un nuovo tipo di relazione dell'uomo con Dio e con il mondo, ossia il tipo della realtà sociale incarnata in Cristo. Da questo punto di vista la comunità cristiana ha operato fin dalle origini non solo in qualità di una semplice "proposta" religiosa, ma allo stesso tempo anche in qualità di una composita sfida sociale che unì il rinnovamento spirituale della società al suo inserimento organico nello specifico corpo ecclesiale. Questo processo aveva origine con l'accoglimento da parte dell'uomo del messaggio di redenzione della fede cristiana e terminava con il battesimo sacramentale, nonché con tutta l'esperienza sacramentale della Chiesa che formava la particolare identità del corpo teantropico della Chiesa stessa all'interno del più ampio quadro della società. In questo modo la relazione più profonda tra Chiesa e mondo è vissuta praticamente ad ogni assemblea liturgica nella quale si forma il corpo di Cristo, tanto come un'anafora liturgica di tutta la creazione divina nel suo Creatore, quanto come un prolungamento mistagogico del Santo Altare nel mondo intero.


(1) Rom 12, 4-5; 1Cor 12, 12-27; Ef 1, 22-23; 2,16; 4, 4-12, 15-16; 5, 30; Col 1, 18,24 e altri.

(2) Giovanni Crisostomo, Sulla Pentecoste, omelia I, 1, PG 50, 454d: « possiamo sempre commemorare la Pentecoste».

(3) Ireneo di Lione, Contro le eresie, III,24,1; PG 7, 966c: « Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei; et ubi Spiritus Dei, illic Ecclesia et omnis gratia».

(4) Ignazio di Antiochia, Lettera ai Tralliani, 3. ÂÅÐÅÓ 2 (1955), 272, 14. Secondo un'altra edizione del testo, «e il vescovo, in quanto Gesù Cristo» (PG 5,677a).

(5) Ippolito di Roma, Confutazione di tutte le eresie, libro I; PG 16, 3020c. ÂÅÐÅÓ 5 (1955), 199, 17- 19.

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